Ci sono parole che sopravvivono al tempo, e ce ne sono altre che il tempo trasforma. “Guzzista” è una di quelle che resistono.
Non è un marchio, non è una categoria. È un modo di appartenere al mondo, di sentire la moto come estensione di sé e non come ornamento. È una cultura, e come tutte le culture, si trasmette non per imposizione ma per contagio.
Essere guzzista non significa escludere chi guida altro. Significa riconoscere una genealogia.
Significa sapere che ogni curva percorsa dal 1921 in poi racconta una storia di uomini che hanno creduto nella meccanica come poesia e nel viaggio come atto di libertà. È la storia di Mandello del Lario, certo, ma è anche quella di un’Italia che si ricostruiva con l’orgoglio e con le mani, dove ogni bullone serrato era una promessa di futuro.
Un Moto Club che si chiama Moto Guzzi Club Roma non appartiene solo ai guzzisti, ma a chi ne comprende il linguaggio.
Il linguaggio del metallo che vibra, del motore che pulsa al minimo, del silenzio che precede la partenza.
Può partecipare chi guida una Triumph o una Yamaha, purché capisca che qui non si corre per arrivare, ma per sentire.
Non per mostrare la potenza, ma per custodire la memoria.
Non per chiudere porte, ma per aprire strade.
Il principio di non discriminazione — che ogni moto club FMI deve giustamente rispettare — non cancella le identità. Le protegge.
Perché la libertà vera non nasce dall’omologazione, ma dal rispetto reciproco fra differenze.
E allora, chi entra nel Moto Guzzi Club Roma non entra in un recinto, ma in una storia comune: quella dell’Aquila che ha insegnato all’Italia che la moto non è un oggetto, ma un’idea.
Essere guzzista, oggi, significa custodire questa idea nel tempo delle plastiche lucide e delle app connesse.
Significa rimanere artigiani dell’anima, testimoni di un modo di andare in moto che non è né vintage né moderno: è umano.
E in un mondo che dimentica con facilità, ricordare è già un atto rivoluzionario.

